All’indomani della pubblicazione avvenuta il 20 giugno della graduatoria IMD 2023 della competitività dei paesi si profila uno scenario assai severo per il governo Meloni. L’indice misura la bravura delle nazioni ad attrarre imprese, capitali, manager e lavoro. Negli anni Novanta l’Italia era 30esima grazie alle svalutazioni monetarie mentre dopo la moneta unica si colloca tra il 41esimo e il 46esimo posto. Anche nel 2023, per il terzo anno consecutivo, è 41esima fra i 64 paesi valutati.
Germania è scivolata dal 15 al 22esimo posto, la Francia è 33esima e la Spagna 36esima. La Danimarca è prima e spicca la Repubblica Ceca, 18esima. Quattro i macro-indicatori presi in considerazione: in termini di efficienza delle politiche pubbliche l’Italia è 56esima, sulle infrastrutture 30esima, 38esima nell’efficienza aziendale e 44esima per prestazione economica. La peggior performance dell’Italia riguarda dunque la finanza pubblica, la politica fiscale e il mercato del lavoro. A ben vedere sono tutte aree di competenza dell’esecutivo nazionale, sono le cosiddette riforme strutturali che languono da decenni e che danneggiano da sempre l’attrattività economica del Belpaese.
Sia ben chiaro: la graduatoria IMD non è il vangelo ed è frutto di dati statistici e di valutazioni soggettive, dunque discrezionali, ma è pur sempre un chiaro indicatore per gli investitori e finanziatori di tutto il mondo. Purtroppo la competitività del paese non cresce e a poco servono la stipula dei frequenti accordi economici internazionali spesi sul piano politico e mediatico come volani di attrattività dell’Italia.
Consideriamo ad esempio il presumibile rinnovo del Memorandum sulla Via del Seta, l’accordo con la Cina che tanto valore ha sul piano politico e in minor misura della bilancia commerciale ma che non contribuisce a modificare i parametri di attrazione del nostro paese. Se non si effettuano le riforme di sistema capaci di schiodare la struttura economica italiana non si va da nessuna parte. Lo stesso PNRR non proviene da una visione unitaria e di prospettiva ma è dato dalla sommatoria dei microprogetti ognuno dei quali soddisfa particolari esigenze, dunque anche questo strumento non rappresenta quel volano di sviluppo strutturale di cui politicamente si parlava nelle fasi iniziali del suo dispiegamento.
Se il governo Meloni dovesse approntare nei prossimi sei mesi una completa riforma del fisco e del mercato del lavoro i vantaggi sarebbero subito evidenti anche in conseguenza della perdurante recessione tecnica in Germania che sta già riducendo il gap di competitività con l’economia tedesca. Un motivo in più per la Meloni da far valere sui tavoli politici e sindacali della negoziazione. Senza considerare che sull’economia italiana ed europea l’outlook non è dei migliori e la restrittiva politica monetaria della Bce non sarà di breve tempo e dunque le riforme sono ancora più urgenti.